Il Biancone o Aquila dei serpenti non è solo un predatore , ma è un “ predatore che si nutre di predatori” e non sono molti i grandi animali in grado di farlo, almeno fuori dagli ambienti marini.
Il leone, per esempio, pur essendo un abile predatore, si limita a uccidere animali erbivori : può capitare che abbatta occasionalmente anche un carnivoro come una iena o uno sciacallo , ma difficilmente se ne nutrirà.
Per questo il leone si trova in cima a una piramide alimentare piuttosto bassa, composta da due soli piani : al piano terra c’è l’erba, al primo piano gli animali erbivori, al secondo il leone. Il biancone invece è in cima a una piramide alimentare di quattro piani poichè mangia serpenti che si alimentano di lucertole che a loro volta mangiano grilli che si cibano di vegetali . E’ una posizione assurda dal punto di vista ecologico , poichè dell’energia contenuta nell’erba mangiata dai grilli solo un decimillesimo arriva al biancone attraverso la catena alimentare, il resto durante il processo di trasferimento viene disperso nell’ambiente sotto forma di calore e di rifiuti . Questa particolarità ecologica ne condiziona completamente il ciclo vitale e le strategie adattative e ne ha forgiato in definitiva il cammino evolutivo, rendendolo il più affascinante fra gli uccelli rapaci delle nostre regioni.
E così anche io ne ho subito, e tuttora ne subisco, il fascino.
Sul biancone ho scritto articoli scientifici e divulgativi, ho tenuto seminari e conferenze, ho curato documentari e reportages televisivi, ma ora, dopo mesi di lavoro, sono riuscito nell’intento di condensare in un solo volume i dati in massima parte inediti da me raccolti nel corso di una ricerca alla quale mi dedico da più di trent’anni nelle colline della Maremma toscana e laziale .
I risultati del lavoro sul campo sono presentati e analizzati con l’aiuto della matematica e della statistica per il beneficio degli ornitologi, ma questo volume è anche la trascrizione in modo organico , e spero interessante, di una serie di appunti e notazioni che sono andato raccogliendo nei miei diari, spesso illustrati con veloci schizzi a matita e acquerelli realizzati sul campo nel corso della lunga storia che ho avuto e tuttora intrattengo con questo rapace dagli occhi color dell’ambra.
Al biancone devo alcuni dei momenti piu’ felici della mia vita e molto da punto di vista del mio lavoro, tanto che considero il tempo trascorso studiandone le abitudini come il più prezioso dei miei investimenti professionali.
Investimento che faccio risalire a un episodio della mia giovinezza quando mi piacevano gli animali tutti, ma i rapaci già esercitavano su di me un fascino particolare. L’inverno lo trascorrevo spiando i gheppi in caccia nei cieli di Roma, la primavera e l’estate con un binocolo da teatro, il solo disponibile in famiglia, seguendo nibbi e poiane nei cieli di Maccarese e dei monti della Tolfa che all’epoca era considerato l’Eldorado degli appassionati di rapaci, il luogo che non avrebbe mai deluso le loro , e le mie, aspettative.
In qualche occasione ebbi la fortuna di osservare anche il biancone, ma sempre da lontano, bianco nel cielo bianco dell’estate calda.
Un giorno di luglio, nel 1972, avevo tredici anni, partecipai alla spedizione che un gruppo di amici naturalisti aveva organizzato per raggiungere un nido di bianconi. Eravamo in sei o sette: professori universitari, documentaristi e ambientalisti ed io, che avevo da poco lasciato i calzoni corti.
Lasciata l’auto su una strada di Tolfa , ci incamminammo per un piccolo sentiero nella macchia, guidati da un abitante della zona che conosceva un nido di biancone per averlo trovato l’anno prima. Ci aveva mostrato le foto scattate dodici mesi prima che ritraevano un giovane dagli occhi gialli ormai ben cresciuto, sdraiato sulla piccola piattaforma di rami secchi.
Arrivammo al nido che era su una quercia; da terra non si vedeva niente. Salì su mio fratello Alessio, agile come una scimmia, portando con sè la macchina fotografica sei per sei di mio padre.
Da sopra ci strillò: “ci sono due pulcini.!” Noi restammo perplessi: il biancone depone infatti un solo uovo.
Infatti non era un biancone, ma si trattava di due giovani nibbi bruni; il nido era occupato da una coppia di quei rapaci abbastanza comuni. Fu una delusione.
Ma la struttura era sicuramente opera dei bianconi, che vi avevano nidificato l’anno prima.
Pazienza, anche quell’anno sembrava destinato a finire così . Mio fratello, di quattro anni più grande di me, non si diede per vinto. Pochi giorni dopo quella spedizione partì in bicicletta da Fregene, dove eravamo in vacanza, raggiunse i monti della Tolfa e si infilò nella macchia determinato a trovare un nido di bianconi. Tornò a casa la sera, sempre pedalando, distrutto dalla stanchezza e sfregiato dalla smilace , ma raggiante perchè aveva trovato un nido di quei rapaci.
Vi tornammo insieme il giorno dopo e fu il primo nido di bianconi di una lunga serie. Era su un leccio, nel fitto della chioma: anche io salii su. C’era un giovane ben impennato che se ne stava acquattato quasi fosse morto ; aveva gli occhi gialli aperti. C’era anche un serpente nel nido, appena portato dagli adulti che volavano in cerchio sopra di noi. Non li avevo mai visti così da vicino.
Da allora non c’è stato anno in cui non abbia dedicato giorni e settimane a seguire i bianconi . E sono quaranta anni!