FORESTE
di Francesco Petretti
Se la tendenza non cambia, fra qualche decennio le foreste andremo a vederle alla periferia di Londra o di Milano, piuttosto che nel cuore dell’America latina o dell’Africa.
I dati parlano chiaro: i paesi in via di sviluppo, territori di grandi foreste primigenie, sono sempre più pelati, di contro l’Europa occidentale, dove gli uomini nel passato hanno diboscato anche i cimiteri di campagna, stanno conoscendo una seconda reazione selvosa, addirittura superiore a quella che, alla caduta dell’Impero romano, portò orsi e lupi alle porte della città eterna e spinse gli uomini a cercare rifugio in borghi arrampicati sulle rupi e in monasteri fortificati.
La fame di terra da coltivare, unita alla bramosia di legname duro e pregiato, e l’espansione delle colture della palma da olio, stanno trasformando le foreste degli oranghi e dei gorilla, delle arpie e dei tucani, in monotone piantagioni di alberelli.
In Indonesia, nel bacino del Congo, e soprattutto in Amazzonia, lande desolate e polverose hanno preso il posto dei polmoni verdi della Terra e nonostante molti governi abbiano posto un freno alla tecnica dello slash and burn, taglia e brucia, in pochi anni dell’ambiente più ricco di biodiversità al mondo resterà solo il ricordo.
La situazione appare particolarmente grave in Amazzonia dove, dopo un periodo di tregua all’inizio del nostro secolo, la distruzione ha ripreso vigore con un ritmo incalzante, documentato dallo studio di Google Earth e dei ricercatori di quindici università americane, recentemente pubblicato dalla rivista Science e basato su più di mezzo milione di fotografie scattate dal satellite negli ultimi dodici anni.
Lo spettacolo che si ottiene scorrendo in rapida successione le fotografie è impressionante: le verdi chiazze che corrispondono alle foreste si frammentanto, diventano più piccole, alcune scompaiono del tutto. A terra significa che un altro lembo di foresta , esteso migliaia di ettari, è andato in fumo o è stato stritolato dai cingoli dei caterpillars.
Fra il 2000 e il 2012 abbiamo perso 2,3 milioni di chilometri quadrati, una superficie otto volte superiore a quella dell’Italia e in questo modo abbiamo provocato l’estinzione di piante e di animali, la scomparsa di intere popolazioni indigene, l’erosione di terreni un tempo fertili e soprattutto la demolizione del principale sistema per eliminare l’eccesso di anidride carbonica dall’atmosfera, il solo in grado di restituirci un clima più moderato e meno pazzo.
Ho volutamente usato il termine abbiamo, perchè i primi responsabili della devastazione delle foreste tropicali siamo noi europei, seguiti poi dagli asiatici e dai nordamericani. Le cose andrebbero molto meglio se acquistassimo solo legname tropicale e soprattutto se riducessimo il consumo di carne e di prodotti contenenti olio di palma. Secondo un rapporto della Commisione europea, infatti, su 132 milioni di ettari distrutti, solo 4,4 servono per rifornire di legname fabbriche e industrie, mentre ben 58 per fare spazio agli allevamenti di bestiame da carne e tutti gli altri per produrre soia, mais, olio di palma, riso e canna da zucchero
Letali all’estero, virtuosi a casa nostra.
Mentre le foreste tropicali vanno in fumo, gli europei assistono infatti compiaciuti all’espansione dei boschi a casa loro, un fenomeno che interessa la Francia, la Germania, la Scandinavia, il Mediterraneo e sta trasformando intere regioni, un tempo piene di gente e di campi coltivati, in una verde e silente selva di di alberi sempre più vetusti.
Il fenomeno è particolarmente evidente in Italia, dove nel 1940 solo il 20 per cento del Paese era coperto dai boschi, mentre oggi pinete e faggete, quercete e abetine rivestono più del 30 per cento della penisola.
Gli alberi poco a poco stanno invadendo anche la sommità delle montagne, non più frequentate da mandrie di vacche e greggi di pecore e questo non sempre è un bene, perchè con la perdita dell’alpeggio e della transumanza, stiamo perdendo non solo la fontina e i formaggi di pecora, ma anche interi ecosistemi abitati da fiori e farfalle, uccelli e lucertole, mentre al coperto della fitta chioma di alberi e arbusti i grandi animali avanzano silenziosi verso le nostre città.
Dipenderà in parte dalle più attente politiche di conservazione e sicuramente anche dallo spopolamento della montagna, fatto sta che ormai gli orsi razzolano nei pollai dei paesini della Marsica e i lupi spesso e volentieri fanno incursioni alla periferia di Roma, per non dire dei cinghiali e dei caprioli, dei cervi e delle volpi che in molte città toscane, liguri e piemontesi sono ormai di casa.
Come nel Medioevo.